La tradizionale messa in scena del presepe napoletano prevedeva tre momenti precisi derivati dalla narrazione biblica. Già dai tempi della corte di Carlo III di Borbone, le figurine venivano collocate sullo scoglio, che lo stesso sovrano amava costruire con le sue mani, una struttura di base in sughero sulla quale venivano organizzate scenograficamente le diverse scene, con sapienza teatrale, dalla raffigurazione della Natività o Adorazione dei Pastori, all’Annuncio ai pastori, alla Cantina o Diversorium, ovverossia la scena d’osteria, «sempre in bilico fra i temi della pittura di genere e di natura morta, e la mitografia popolare del “Paese della Cuccagna”» (Riccomini, 1999). A stretto giro non può mancare l’orientalismo fastoso del favoloso corteo dei Magi, accompagnati da mori, figure di levantini o africani, eleganti levrieri, dromedari, cavalli di razza, “georgiani” (di assoluto valore alcuni della collezione Bordoni). Un festoso «proliferare della vita popolare» quotidiana, con un’umanità varia di aristocratici e mendicanti, pastori, arrotini, fabbri, venditori, turchi, servi in livrea, campagnoli, villanelle nei costumi del Regno, a significare la realtà cosmopolita di Napoli, ma anche il suo contraddittorio mondo diviso fra “miseria e nobiltà”, in cui con occhio non sempre bonario, accanto a «prosperose venustà contadine», sono irriverentemente messi a nudo difetti – rughe, gozzi, calvizie – allusivi anche a bassezze morali, in parallelo con la coeva pittura di genere di Gaspare Traversi.